22 febbraio 2006

Stress e Aborto spontaneo

All’inizio di una gravidanza lo stress sembra aumentare di quasi tre volte (2,7) il rischio di aborto spontaneo. È quanto dimostrato per la prima volta da uno studio pubblicato dai Proceedings of the National Academy of Sciences.

Fonte: Nepomnaschy et al., Cortisol levels and very early pregnancy loss in humans, PNAS 2006.

19 febbraio 2006

Decisioni importanti: meglio affidarsi all'inconscio. La ricerca conferma le tesi di Milton H. Erickson

Fare la scelta giusta: l’effetto della deliberazione senza attenzione. La ricerca scientifica conferma le intuizioni di Milton H. Erickson.

“Fidati del tuo inconscio (Trust your own unconscious)”, consigliava Milton H. Erickson ai suoi pazienti e ai suoi allievi. “L’ipnosi profonda è lo stato in cui il tuo funzionamento inconscio non è disturbato dalla mente cosciente”. “L’inconscio non è solo la sede del conflitto e dei complessi, è anche la fonte delle tue risorse”. Sono concetti chiari nel modello dell’ipnosi ericksoniana. Ebbene, ricerche scientifiche recenti sul pensiero (in)conscio durante decisioni complesse mostrano che Erickson aveva ragione. E che la convinzione comune che il pensiero cosciente conduca alle migliori decisioni è sbagliata. Di più, secondo tali studi sono specialmente le decisioni complesse che andrebbero prese attraverso il pensiero inconscio.
Lo annunciano sulla rivista “Science” Ap Dijksterhuis e colleghi dell’Università di Amsterdam, che hanno reclutato 80 persone per una serie di test decisionali in grado valutare quanto sia funzionale una decisione basata sulle facoltà coscienti piuttosto che su quelle inconsce.
I soggetti dello studio avevano a disposizione alcune informazioni e dovevano prendere decisioni circa l’acquisto di oggetti banali come uno shampoo oppure più impegnativi come quello di un’auto. La coorte era però divisa in due gruppi: al primo veniva chiesto semplicemente di scegliere tra diversi prodotti solo in base alle informazioni disponibili; all’altro, di prendere visione delle informazioni riguardo ai prodotti e infine di prendere rapidamente una decisione sull’acquisto, ma solo dopo aver risolto alcuni rompicapo e giochi logici, in modo da tenere occupate le facoltà cognitive e da riuscire a “cogliere di sorpresa” la parte più inconscia della mente.
“Ciò che abbiamo trovato – ha spiegato Dijksterhuis – è che quando la scelta era in qualche modo semplice, come l’acquisto di un paio di guanti o di uno shampoo, le persone effettuavano scelte migliori, ovvero rimanevano soddisfatte nel seguito, se si approcciavano all’informazione in modo cosciente. Nel caso invece di decisioni più complesse, come nell’acquisto di una casa, il ‘pensare troppo’ portava i soggetti a fare la scelta sbagliata. Se invece si teneva occupata la mente nella soluzione di rompicapi, la parte inconscia era in grado di considerare tutte le informazioni e di arrivare infine a decisioni complessivamente più ponderate.”

Fonte: On Making the Right Choice: The Deliberation-Without-Attention Effect, Ap Dijksterhuis & coll.; Department of Psychology, University of Amsterdam (Science 17 February 2006)

18 febbraio 2006

Anziani: ospedalizzazione e effetti sul coniuge

La malattia di un coniuge può gravare sulla salute del partner che lo accudisce (caregiver). Nelle coppie anziane (oltre i 65 anni) l’ospedalizzazione di un coniuge è associata ad un maggior rischio di morte e l’effetto della malattia del partner varia a seconda delle diagnosi.
Il periodo di massimo rischio per il coniuge rimasto a casa è quello dei 30 giorni successivi all'evento, ma l’effetto permane per due anni. A risentirne maggiormente sono i maschi, per i quali l’aumento della mortalità cresce, in media, del 21%, contro il 17% rilevato per le donne.
I ricercatori hanno peraltro notato che l’aumento della mortalità è correlato in particolare alla diagnosi in base a cui il partner è stato ricoverato, ed è massimo nel caso di una diagnosi di demenza (+28% M; +22% F), comunque elevato per fratture gravi (+15% M; +11% F) e scompenso cardiaco (+12% M; +15% F), meno sensibile in caso di ictus (+6% M; +5% F), o infarto (+5% M; nessun effetto F) e statisticamente irrilevante in caso di cancro.

Fonte: New England Journal of Medicine

17 febbraio 2006

Donne e Depressione: alcuni dati aggiornati

Alcune precisazioni sui dati presentati dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna.

L’Osservatorio nazionale sulla salute della donna (ONDa) ha presentato alcuni dati sulla depressione: le donne presentano un rischio circa triplo di sviluppare una depressione maggiore rispetto agli uomini; molte pazienti manifestano i primi sintomi depressivi tra i 20 ed i 30 anni; allorché una donna ha lamentato una crisi depressiva, presenta il 50% di possibilità di avere ricadute di malattia nel corso della vita.
Per quanto riguarda la depressione in gravidanza: i disturbi depressivi maggiori possono essere associati a parto prematuro, basso peso alla nascita del neonato, rischi suicidari; è importante quindi un trattamento farmacologico adeguato anche della gestante con depressione maggiore; i triciclici e alcuni inibitori del reuptake della serotonina sembrano essere sufficientemente sicuri da un punto di vista teratogenico.

Ora, in realtà la ricerca scientifica mostra che molti dubbi sono sorti recentemente sull’uso di certi antidepressivi in generale e in gravidanza in particolare (ne abbiamo parlato qui: Antidepressivi in gravidanza: effetti sul feto).
Andrebbe inoltre segnalata l’importanza della psicoterapia.

14 febbraio 2006

Malati mentali e Stigma: superare i pregiudizi

Da un libro autobiografico - Kay Redfield Jamison, psichiatra che ha sofferto di disturbi bipolari - nel 1995 (An unquiet mind. New York: Knopf, 1995) a un editoriale sulla rivista The Lancet di questo mese (The many stigmas of mental illness, 2006).

“Lo stigma nasce dai limiti che ogni società pone rispetto ai comportamenti ritenuti accettabili; ma ci sono anche cause che vanno oltre quelle sociologiche e antropologiche. (…) La malattia mentale fa paura perché rientra nella sfera del non conosciuto e del non comprensibile ed è istintivamente associata a comportamenti violenti (il che non è del tutto fuori luogo, dato che tali azioni sono presenti ad esempio nel 50 per cento dei casi di episodi maniacali). Inoltre, alcuni stati emotivi di un individuo all’interno del suo gruppo sono “contagiosi” (ad es. la depressione può espandersi a macchia d’olio fra le persone vicine a quella affetta)”.

“Questa reazione stigmatizzante ha pesanti ricadute per la condizione degli individui che soffrono di disagio mentale: incide infatti sulle scelte che una società compie in tema di legislazione, selezione sul lavoro, assistenza sanitaria, coperture assicurative e priorità della ricerca. Tuttavia, il fatto che chi ha superato la malattia mentale sia riluttante a parlare del suo passato crea una percezione distorta di questi disturbi, facendo risaltare i fatti di cronaca nera, di abbandono e di degrado, e non le guarigioni. Eppure queste avvengono, e in numerosi casi la persona supera il disagio mentale e si inserisce con successo nel tessuto sociale; è importante acquisirne la consapevolezza e superare l’idea deleteria che la malattia mentale non possa essere curata: questo pregiudizio è una delle principali cause di emarginazione”.

“Ma che dire quando la persona sofferente è un operatore della salute? Se non si rimuove il pregiudizio per prima cosa negli ambienti sanitari come si può pretendere che ciò avvenga nella società più estesa? Medici e altri operatori sanitari soffrono di depressione e altre psicopatologie con la stessa proporzione del resto della popolazione; e le pressioni e gli stress possono anche essere più elevati, tanto che il tasso di suicidi è tra l'altro più frequente”.

Fonti: Redfield Jamison K. The many stigmas of mental illness. The Lancet 2006;367:533-34.

Essere Genitori e Depressione

Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Health & Social Behavior, basato sui dati della National Survey of Families and Households, essere genitori non è associato a una salute mentale migliore o a una condizione mentale protettiva. Al contrario, l’attaccamento istintivo ai figli comporterebbe un “costo emozionale”, il quale, a sua volta, in certe condizioni, aumenterebbe la probabilità di soffrire di episodi depressivi rispetto ad adulti che non hanno figli.
Secondo tale ricerca non vi è alcuna differenza tra i padri e le madri nel costo emozionale che le preoccupazioni per un figlio fanno pagare. Ciò sfaterebbe il mito che siano le mamme a preoccuparsi di più dei figli.
I genitori separati, che non vivono con i propri figli, manifesterebbero più sintomi depressivi dei genitori che non sono separati o che hanno l’affidamento dei figli. Ciò perché il distacco dalla quotidianità dei propri figli renderebbe i genitori più insicuri del loro ruolo e potrebbe far nascere sensi di colpa.

Fonte: Clarifying the relationship between parenthood and depression. J Health Soc Behav 2005;46(4):341-58.

13 febbraio 2006

Deficit d’attenzione e iperattività (ADHD): effetti collaterali?

I farmaci come il ritalin per la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) potrebbero avere gravi effetti collaterali. È l’avvertimento di Peter Gross, direttore di Medicina interna dell'Hackensack University Medical Center in New Jersey, presidente della commissione “FDA’s Drug Safety & Risk Management Advisory Committee”.

La Food and Drug Administration, l’organo statunitense di controllo sui farmaci, ha dichiarato dal canto suo che prenderà in considerazione le raccomandazioni espresse dalla commissione. Ma, ha rilevato, non bisogna creare allarme ingiustificato e prematuro. Le affermazioni circa presunti effetti avversi a carico del sistema cardiovascolare per i pazienti che ne fanno uso dovranno dunque essere verificate in modo puntuale con nuove ricerche.

L’FDA ha rilasciato un report nell’aprile 2004 in cui erano stati segnalati 51 decessi in America tra pazienti con ADHD in terapia con queste medicine. Altri report FDA hanno fatto seguito a questo descrivendo sintomi quali pressione alta, attacchi cardiaci, ictus, dolore toracico, aritmie e svenimenti. Servono studi conclusivi.

Le pause sono cruciali per la memoria e l'apprendimento (Break to Replay and Rewind)

Un nuovo studio mostra che i momenti di ozio potrebbero essere cruciali per l’apprendimento. Il cervello riattiva le sequenze comportamentali nell'ippocampo durante lo stato di veglia.

L’ipotesi nasce da neuroscienziati che hanno studiato il cervello di alcuni topolini che esplorano un ambiente nuovo: il cervello dei topi “rivedrebbe” (replay) il percorso al contrario (come il rewind del videoregistratore) quando l’animale fa una breve pausa per riposare.
Mentre i topi si muovono nel percorso, alcuni neuroni dell’ippocampo si attivano in una sequenza specifica (in risposta al passaggio di un animale in un certo punto dello spazio). La scoperta è che, durante il riposo, le stesse cellule si riattivavano al contrario e con maggiore velocità. Tale “replay” coinciderebbe con la dopamina rilasciata nel cervello quando l’animale trova il cibo e potrebbe servire a rafforzare la memoria di quel percorso che ha portato al cibo.
La scoperta potrebbe provare che i momenti di riposo fra un’attività a un’altra sono cruciali per l’apprendimento. Già si sa che chi fa una breve pausa fa una prova di apprendimento e un’altra apprende più velocemente. Interrompere queste pause potrebbe essere un errore.

La sequenza di attivazione dei neuroni, inoltre, si presenta durante il sonno, ma nella stessa sequenza (non al contrario). Questa potrebbe essere una seconda fase di consolidamento dell’apprendimento, della memoria. Abbiamo già segnalato, infatti, che il sonno favorisce l’apprendimento.

Fonte: David Foster and Matthew Wilson working at the Massachusetts Institute of Technology in Cambridge: Reverse replay of behavioural sequences in hippocampal place cells during the awake state (Nature).

10 febbraio 2006

Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD): la salute mentale minata dei reduci americani


La guerra dentro.

Aiman Al Zawahiri, n.2 di Al Qaeda, nell’ultimo video trasmesso dalla televisione Al Jazeera, rivolgendosi a Bush: “Di chi sono i soldati che si suicidano a causa della disperazione? Nostri o vostri?”. Al Qaeda sa che il morale non costituisce solo un problema tra le truppe al fronte in Iraq ed Afghanistan, ma anche quando i soldati tornano a casa.

Il San Francisco Chronicle, domenica 29 gennaio, dedica un’inchiesta alla storia di James Blake Miller (The War Within, La Guerra Dentro), un marine rientrato da Fallujah da qualche mese, il quale l’anno scorso era diventato l’icona vivente della guerra in Iraq (nella foto che lo ritraeva, sporco ed insanguinato, con una sigaretta pendente dall’angolo della bocca). Oggi quel “Marlboro man” trascorre giorni difficili, provato da una grave forma di disturbo post-traumatico da stress.

La sua storia è simile a quella di altri 317 mila veterani trattati per lo stesso disturbo nel corso del 2005 dai Department of Veterans Affair Medical Centers.

Una ricerca del 2004 pubblicata dal New England Journal of Medicine su soldati e marines che hanno prestato servizio in Afghanistan e Iraq ha stabilito che il 18% delle truppe impiegate in quei teatri di guerra si ammala di disturbo post-traumatico da stress, depressione o stato d’ansia generalizzato. Soltanto il 40 per cento di costoro aveva ricevuto cure adeguate quando ancora era in servizio.

Il Dipartimento dei Veterans dichiara una serie di problemi di salute psichica ai quali sono esposti i militari impiegati nella missione Enduring Freedom. Intanto, perché il 94% dei soldati americani dichiara di esser stato fatto oggetto di fuoco nemico, l’86% di aver visto morti o feriti gravi in combattimento ed il 68% di aver visto americani morti o feriti gravi. Ancor più impressionante è che un soldato americano su due (il 48%) dichiara di esser stato responsabile della morte almeno di un nemico e che più di uno su quattro (il 28%) di aver causato la morte di civili. Anche la salute ed i comportamenti sessuali dei militari sono messi a dura prova dall’esperienza irachena.

Il servizio PTSD and Suicide (U.S. Department for Veterans Affairs) consiglia come prevenire le tendenze suicidarie proprie e dei commilitoni.

09 febbraio 2006

Antidepressivi in gravidanza: effetti sul feto

Avevamo già segnalato che gli antidepressivi sono presenti nel liquido amniotico più di quanto non si credesse in precedenza.

Ora sappiamo anche che gli antidepressivi SSRI (che agiscono sulla ricaptazione della serotonina), se assunti nella seconda metà della gravidanza (dopo la 22a settimana di gestazione), aumenterebbero la probabilità di una seria condizione respiratoria del neonato. E’ la conclusione di uno studio condotto presso la University of California, San Diego (UCSD) e la Boston University, pubblicato sul New England Journal of Medicine.

E’ stato indagato il rapporto tra l’assunzione di antidepressivi SSRI e l’ipertensione polmonare persistente del neonato (una condizione che determina il rischio di una crisi respiratoria del neonato che va trattata con interventi d’urgenza; si verifica per un ritorno alla circolazione di tipo fetale, con grave riduzione del flusso ematico polmonare, dovuta alla costrizione delle arteriole polmonari; colpisce in media 1-2 neonati su 1000). Le madri che hanno preso altri antidepressivi o quelle che hanno smesso gli inibitori entro la prima metà della gravidanza non sembrano correre alcun rischio. Il rischio non è alto, ma è comunque significativo.

Un altro recente studio ha dimostrato la facilità di ricaduta nei sintomi della depressione, nel caso in cui una donna in terapia antidepressiva farmacologica sospenda i farmaci antidepressivi in gravidanza. Dall’altra parte vi sono le evidenze dello studio citato sopra e altre già conosciute, ad esempio il fatto che quasi un neonato su tre, se la madre durante la gestazione ha assunto antidepressivi, manifesta segni più o meno forti di crisi d’astinenza da questi farmaci (pubblicato sugli Archives of Pediatrics & Adolescent Medicine, da Levinson-Castiel, del Children’s Medical Center di Petah Tiqwa in Israele).

Fonti:
Selective Serotonin-Reuptake Inhibitors and Risk of Persistent Pulmonary Hypertension of the Newborn. New English Journal of Medicine.
Neonatal abstinence syndrome after in utero exposure to selective serotonin reuptake inhibitors in term infants. Arch Pediatr Adolesc Med 2006;160:173-176.

08 febbraio 2006

Orexina/Ipocretina: Narcolessia, Insonnia, Obesità, Dipendenza da amfetamine

Disturbi del sonno, obesità e dipendenza da amfetamine condividono alcuni processi biochimici.

L’ipotalamo posterolaterale contiene i neuroni che producono orexina/ipocretina, neuropeptide fondamentale per il mantenimento di una normale veglia, la cui grave carenza nell’organismo induce la narcolessia, una patologia del sonno che provoca improvvisi addormentamenti durante il giorno e fenomeni di paralisi temporanea.
Alcuni studi attuali sembrano indicare che un farmaco inibitore dell’orexina amplierebbe le fasi di sonno REM e agevolerebbe i processi di consolidamento della memoria e potrebbe essere usato per l’insonnia.

L’insonnia è un disturbo che colpisce, per periodi più o meno lunghi della vita, dal 20 al 30 per cento della popolazione. Nei casi più severi può essere necessario ricorrere a farmaci per cercare di migliorare la situazione, ma si tratta sempre di terapie da affrontare con particolare cautela, in quanto le molecole disponibili hanno controindicazioni e inconvenienti. In particolare, possono indurre dipendenza, tolleranza e/o un sonno senza sogni, ossia con la riduzione o la soppressione delle fasi di sonno REM. E’ sempre indicato affrontare il problema con una psicoterapia cognitivo-comportamentale o ipnotica.

Dato che chi soffre di narcolessia è resistente all’azione delle amfetamine è importante testare la possibilità che l’orexina possa essere coinvolta nei fenomeni di abuso di questa ampia classe di sostanze.
L’orexina, infine, è coinvolta nei meccanismi di regolazione dell’assunzione di cibo, e si ipotizza che il suo inibitore potrebbe essere utilizzato per il controllo dell’obesità.

Alzheimer: interazione fra fattori genetici e fattori ambientali

Secondo una ricerca internazionale - condotta prendendo in esame 12.000 coppie di gemelli e pubblicata sul numero di febbraio degli Archives of General Psychiatry - la Malattia di Alzheimer ha una causa genetica nell’80 per cento dei casi. Nessuno studio di questo tipo aveva finora preso in considerazione un numero così elevato di soggetti.
Ciò non significa che l’ambiente non sia importante, al contrario l’ambiente può influire in modo determinante sul fatto che uno specifico soggetto sviluppi effettivamente o meno la malattia. Anche i gemelli identici, che condividono esattamente gli stessi geni, manifestano infatti un grado di vulnerabilità differente: quando uno di essi si ammala di Alzheimer, c'è una probabilità di solo il 45 per cento che il corrispondente gemello stia iniziando a soffrire anch’egli della malattia. Nel 55 per cento dei casi o non ne soffrirà affatto o la contrarrà in età più avanzata.

Fonte: Archives of General Psychiatry

07 febbraio 2006

Stress cronico e Sindrome metabolica

Lo stress cronico al lavoro e la sindrome metabolica: uno studio condotto dal Department of Epidemiology and Public Health, University College London

Sindrome metabolica: quali obiettivi? Il primo obiettivo – fondamentale – è ridurre le cause sottostanti (obesità e inattività fisica). La riduzione del peso è un intervento di primo grado. Una regolare attività fisica è una componente di routine nel controllo della sindrome metabolica.
Questi obiettivi mostrano quanto possa essere importante una terapia incentrata sul controllo delle abitudini disfunzionali e sulla promozione di nuove abitudini salutari. Abbiamo già considerato l’importanza dell’esercizio fisico moderato come abitudine “salvavita”: Move for Health.

Sappiamo anche che lo stress nel luogo di lavoro è associato alle patologie cardiache coronariche; sappiamo anche che la sindrome metabolica è correlata alle differenti condizioni sociali. Lo studio che riportiamo oggi dimostra, inoltre, che lo stress cronico (al lavoro ad esempio) è un fattore di rischio importante per la sindrome metabolica. Lo studio fornisce evidenze circa la plausibilità biologica di un legame fra stressors (fattori di stress) psicosociali quotidiani e malattia cardiaca. Sono state studiate 10308 persone, fra i 35 e i 55 anni, nei loro luoghi di lavoro, per un periodo di 14 anni. I risultati mostrano un relazione fra l’esposizione a stress di lavoro per 14 anni e il rischio di sindrome metabolica, indipendentemente da altri fattori di rischio. Gli impiegati stressati hanno presentato una probabilità di gran lunga maggiore (più del doppio) di sviluppare la sindrome metabolica rispetto ai colleghi non esposti a stress cronico.

Fonte: Department of Epidemiology and Public Health, University College London

Indice di Massa Corporea (IMC) o Body Mass Index (BMI)

Come calcolare il proprio Indice di Massa Corporea (IMC) o Body Mass Index (BMI).

L'Indice di Massa Corporea (IMC), in inglese Body Mass Index (BMI) è il rapporto tra il peso in chilogrammi di una persona ed il quadrato della sua altezza espressa in metri. E’considerato un indice molto più attendibile del solo peso corporeo per definire le caratteristiche fisiche di una persona e viene usato per la diagnosi delle patologie nutrizionali.
Per calcolare il vostro IMC o BMI:

  1. Prendete il vostro peso in chilogrammi (ad es. 45 kg)
  2. Dividetelo per la vostra altezza espressa in metri e moltiplicata al quadrato (ad es. 1,70 x 1,70 = 2,89)
  3. Il risultato sarà il vostro IMC (45 / 2,89 = 15,5)

Si considera normale un IMC compreso tra 18,5 e 24,9. Un IMC inferiore a 18,5 indica sottopeso, un IMC compreso tra 25 e 29,9 indica sovrappeso, mentre un IMC superiore a 30 indica obesità.

Indice di Massa Corporea (IMC) o Body Mass Index (BMI): un confronto fra uomini e donne in salute negli Stati Uniti

Uno studio recente, pubblicato sull’International Journal of Obesity, ha messo a confronto la distribuzione del Body Mass Index (BMI) – Indice di Massa Corporea (IMC) – negli uomini e nelle donne, non fumatori, di buona salute negli Stati Uniti (11404 persone, di cui 4894 uomini e 6510 donne, da venti anni in su). Per definire la “salute” sono state applicate misurazioni basate su autovalutazione (self-report), storia medica, pressione arteriosa, grassi nel sangue, altri correlati fisiologici e abitudini comportamentali come il fumo e l’attività sportiva.
Sia per gli uomini che per le donne, la distribuzione del BMI è più regolare con l’aumentare del livello di salute. Più del 90% degli uomini e delle donne in buona salute mostra un BMI tra 19.5 e 30 (uomini) e 18-30 (donne), con una media di 24.5 per gli uomini e di 21.5 per le donne. La prevalenza di soprappeso diminuisce nettamente con l’aumentare del livello di salute nelle donne, ma varia poco negli uomini; ad un buon livello di salute la prevalenza dell’obesità cala nettamente sia per gli uomini che le donne.
Secondo i risultati, solo il 5% circa delle donne e degli uomini in buona salute sarebbero classificabili come obesi seguendo i criteri del BMI (o IMC). Tuttavia, la distribuzione del BMI differisce tra gli uomini in salute e le donne in salute. Paragonata alla distribuzione maschile, la distribuzione femminile del BMI è spostata verso valori più bassi ed è più irregolare.

Fonte: International Journal of Obesity (2006) 30, 374–379

Per calcolare il proprio BMI: Indice di Massa Corporea

06 febbraio 2006

Fattori di rischio di ricaduta nei disturbi dell’alimentazione: uno studio

Uno studio recente, pubblicato nell’American Journal of Psychiatry, ha valutato i fattori di rischio di ricaduta in donne con diagnosi di disturbo dell’alimentazione che hanno avuto una remissione dei sintomi.
In un totale di 246 donne tenute in osservazione, le ricadute sono state un terzo del totale.
Le evoluzioni dei sintomi nelle ricadute sono state differenti a seconda del tipo di disturbo alimentare: le pazienti con diagnosi di anoressia nervosa di tipo restrittivo hanno mostrato una tendenza a sviluppare ricadute con sintomi bulimici; le pazienti con diagnosi di anoressia nervosa con condotte di eliminazione o di bulimia nervosa hanno mostrato una tendenza a sviluppare di nuovo sintomi di tipo bulimico.
Il fattore di rischio di ricaduta comune alle tre forme di disturbo dell’alimentazione citare è – secondo lo studio - la permanenza di disturbi dell’immagine corporea. La pazienti che hanno sofferto di bulimia, inoltre, hanno presentato un fattore di rischio aggiuntivo: la permanenza di difficoltà nella gestione dello stress in situazioni sociali.
Lo studio conferma che la terapia individuale è un fattore preventivo importante.

Fonte: American Journal of Psychiatry

Donne e Salute: Osservatorio nazionale sulla salute della donna

1947. Definizione di salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): la salute è uno “stato di benessere fisico, psichico e relazionale”. La definizione è uno dei principi cardine del neonato Osservatorio nazionale sulla salute della donna, fondato da Alberto Costa, Gilberto Corbellini e Francesca Merzagora, presentato oggi al Campidoglio.
Perché osservare la salute della donna? Perché essa passa per lo più inosservata, nonostante ci si trovi in presenza di una salute “delicata”, su cui incide un carico di lavoro spesso poco appagante e gravato dalle occupazioni domestiche, l’inclinazione femminile a occuparsi degli altri prima che se stesse (secondo il Censis, ad assistere malati gravi sono per l’81,2% donne), la scarsa partecipazione delle donne agli studi clinici sui farmaci, la mancanza di potere sociale ed economico, una condizione psicologica soggetta a maggiore fragilità a causa delle ottiche distorte con cui la società inquadra le donne. In altri termini, agiscono negativamente sulla salute delle donne fattori fra cui si annoverano l’indigenza o la dipendenza economica, la violenza fisica o psichica, le discriminazioni declinate con diverse modalità e toni, l’infertilità, le varie inerzie decisionali, gli accessi iniqui ai servizi sanitari pubblici, le frustrazioni, lo stress.
Perché è importante promuovere un aumento la consapevolezza socio-politica, l’equità nel campo della salute, la sensibilità dell’opinione pubblica, gli studi sulle patologie “femminili”, un ruolo delle donne più responsabile nei confronti del proprio benessere.

Link: Onda osservatorio
Fonte: Sole24Ore; Ansa

04 febbraio 2006

La decisione condivisa in medicina (Shared Decision-Making)

Negli ultimi anni si è registrata in medicina la tendenza a favorire la partecipazione dei pazienti alle decisioni cliniche. Secondo i risultati di uno studio recente apparso negli Annals of Family Medicine, la decisione condivisa fra medico e paziente viene vissuta frequentemente in modo negativo dal paziente (nel 57% dei casi)
Il dr George Saba, dell’Università della California a S. Francisco, e colleghi hanno riscontrato che la fiducia, l’autorità e altri fattori relazionali influenzano l’esperienza soggettiva del rapporto medico-paziente. Di conseguenza la comunicazione fra medico e paziente, in particolare nelle popolazioni disagiate, deve comprendere un comportamento e una comunicazione efficaci.

Fonte: Annals of Family Medicine, gennaio/febbraio 2006

03 febbraio 2006

Depressione e rischio di arresto cardiaco

Nuove ricerche suggeriscono che la depressione aumenta il rischio di arresto cardiaco anche in pazienti senza altri fattori di rischio per malattie cardiache.
Uno studio - condotto su 2228 persone che hanno avuto un arresto cardiaco tra gennaio 1980 e dicembre 1994 e su 4164 persone che non ne sono state colpite – mostra che le persone depresse hanno in media il 43 % di probabilità in più di essere colpite da arresto cardiaco rispetto a persone non depresse, a prescindere dal genere, dall’età o dall’aver già sofferto o meno di problemi cardiaci.
La gravità della depressione influisce sulla percentuale di rischio: 30 % per la depressione lieve, 77 % per la depressione grave.
Secondo i ricercatori la depressione potrebbe avere un effetto principalmente sulla formazione di placche nelle arterie. Ma a ciò è da aggiungere la probabilità che i pazienti depressi trascurino la terapia farmacologia o abbiano uno stile di vita non salutare.

Fonte: Archives of Internal Medicine

02 febbraio 2006

Freud, padre della Psicoanalisi, compie 150 anni

Vienna - L'Austria ha dato il via in questo fine settimana alle celebrazioni degli anniversari di due suoi figli illustri, il salisburghese Wolfgang Amadeus Mozart e il viennese d'adozione Sigmund Freud. Per Freud, il 2006 è il centocinquantesimo anno dalla nascita (6 maggio 1856).

Freud è un pensatore di prima grandezza, che dobbiamo continuare a leggere indipendentemente dalle mode e dall’uso che ne fanno alcuni psicoanalisti. I grandi classici hanno il pregio straordinario di aver scritto in modo chiaro e comprensibile ciò che in seguito è stato complicato e oscurato. Molto spesso, tornare ai classici evoca un senso di sollievo quasi gioioso. Come scrive Paolo Rossi, storico delle scienza, “prendere in mano un testo di Freud dopo aver letto un gruppo di pagine di Lacan (è come) aprire una finestra in una stanza piena di fumo”.

La lezione di Freud sul valore della scienza vale ancora oggi. Nei primi trent’anni del secolo scorso è difficile trovare una difesa della ragione e della scienza che abbia l’amara e accorata lucidità delle pagine scritte da Freud ne “L’avvenire di un’illusione” (era il 1927, lo stesso anno della pubblicazione di “Sein und Zeit” di Heidegger)… (Continua a leggere qui: Freud: una lezione sul valore della scienza).

Secondo la filosofa Patricia Kitcher (Freud’s Dream, Mit Press, 1992) la metapsicologia di Freud può essere interpretata come un tentativo ante-litteram di costruire una scienza cognitiva, interdisciplinare, dove confluissero in un progetto non ontologicamente riduzionistico, ma metodologicamente sinergico, i risultati delle scienze del suo tempo (neurofisiologia, linguistica, antropologia) che si occupavano della mente (con le divisioni topografiche della mente che allora diventarono “unità funzionali”, come per la futura scienza cognitiva che si baserà sull’analogia mente-computer).

Freud: una lezione sul valore della scienza

La lezione di Freud sul valore della scienza vale ancora oggi. Nei primi trent’anni del secolo scorso è difficile trovare una difesa della ragione e della scienza che abbia l’amara e accorata lucidità delle pagine scritte da Freud ne “L’avvenire di un’illusione” (era il 1927, lo stesso anno della pubblicazione di “Sein und Zeit” di Heidegger). La scienza umana - secondo Freud - ha impartito frustrazioni al genere umano (con Copernico l’uomo non è più il centro dell’universo; con Darwin non è più un essere distinto dagli altri animali; con la psicoanalisi ha perso l’illusione di avere il pieno controllo sulla propria mente) e per questo essa non è solo una forma di conoscenza, ma anche una continua, grande, lezione di vita:

“La scienza ha molti nemici dichiarati e un numero molto maggiore di nemici nascosti che non possono perdonarle di aver indebolito la fede religiosa e di minacciare di abbatterla. A suo biasimo viene addotto il poco che ci ha appreso e l’incomparabilmente superiore mole di ciò che ha lasciato nel buio. Ma si dimentica quanto sia giovane, quanto ardui ne furono gli inizi e quanto infinitamente piccolo è il lasso di tempo che è intercorso dal momento in cui l’intelletto umano si è fatto abbastanza forte per affrontare i suoi compiti (…). No, la scienza non è un illusione. Sarebbe invece un’illusione credere di poter trovare altrove ciò che essa ci può dare”.

“L’uomo si troverà certamente in una situazione difficile, dovrà confessare a se stesso la propria impotenza, la propria irrilevanza nella compagine dell’universo, cesserà di essere al centro della creazione, né sarà più l’oggetto delle tenere cure della benevola provvidenza. Sarà nella stessa situazione di un bambino che ha lasciato la casa paterna nella quale stava così protetto e comodo. Ma non è forse vero che lo stadio dell’infanzia è destinato a essere superato? L’uomo non può rimanere sempre bambino, deve alla fine avventurarsi nella “vita ostile”.”

“La voce dell’intelletto è fioca (a paragone della vita pulsionale), ma non ha pace finché non ottiene ascolto. Alla fine, dopo ripetuti, innumerevoli rifiuti, lo trova. Questo è uno dei pochi punti sui quali si può essere ottimisti per l’avvenire dell’umanità, ma non è un punto di poca importanza.”