
In Colombia una ragazzina di undici anni, violentata dal patrigno e incinta, non riusciva a trovare un medico che, nel pieno rispetto della legge, la facesse abortire. Nella nostra cultura sembra scontato ricorrere all’aborto in un caso del genere. Si risponde immediatamente no a queste domande: Può una ragazzina undicenne essere madre? E può una donna che abbia subito una violenza sessuale, accettare la gravidanza frutto di quella violenza?
Ma perché siamo sicuri che a undici anni un aborto sia meno traumatico di un parto? Perché un figlio ci sembra immediatamente una iattura, una condanna a vita?
L’operazione istintiva che compiamo è di spostare il luogo dello scandalo, che non è più la violenza sessuale, ma la gravidanza. L’aborto ci consente di rimuovere lo stupro, ci illude di riparare il male, traslato nella vita che nasce.
Eugenia Roccella oggi su Il Foglio racconta "di una ragazza di Capoverde, abusata appena adolescente, e rimasta incinta. Per mantenere la sua bimba, la ragazza era venuta poi a lavorare in Italia, e la sua unica angoscia era che l’uomo che l’aveva violentata potesse un giorno illegalmente portargliela via. Non c’era nesso, per lei, tra la violenza subita e la figlia: la bambina era vissuta anzi come un risarcimento, un bene segreto e tutto suo, un recupero della dignità calpestata.
Per la nostra cultura invece la maternità precoce è diventata più scandalosa del sesso precoce, infinitamente più di un eventuale aborto. Si reclama la diffusione della pillola del giorno dopo nelle scuole come una conquista di civiltà, come se l’unica cosa in grado di turbare un’adolescenza spensierata fosse il rischio di concepire.
Però si continua a ripetere, come una litania in una lingua di cui abbiamo smarrito il senso, che l’aborto per la donna è un trauma. Ma chi, oggi, lo crede davvero? Chi davvero pensa che l’aborto sia una ferita fisica e simbolica, qualcosa che tocca profondamente il cuore dell’identità di genere?"
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